«War made the State, and the State made war»

L’entrata in guerra come posta di un duro confronto di piazza mette in gioco il rafforzamento istituzionale dell’apparato statale e la sua esistenza futura. La conflagrazione europea edifica la rete degli stati nazione nel vecchio continente e la sua fase preparatoria, mentre predispone le strutture di lunga durata all’interno degli Stati coinvolti, preconizza la società organica. Il monopolio ed il rafforzamento dei mezzi di coercizione necessari per l’imposizione fiscale come per l’approntamento della macchina militare (armi, trasporti, reclutamento, finanziamenti, assistenza e funzioni ausiliarie, organizzazioni gerarchiche complesse…) costituiscono lo strumento basilare della stessa formazione statuale. Per questo la tenzone che si gioca sul militarismo nel proscenio prebellico assume una valenza notevole. I motivi risiedono nel nesso fortissimo che in genere si instaura fra Stato e Guerra: un aspetto questo ben analizzato vuoi da politologi come Charles Tilly («War made the State, and the State made war»), vuoi da giuristi come Sabino Cassese. Non c’è bisogno di essere anarchici per capirlo. L’occasione bellica mette in moto il sistema amministrativo e lo forgia per il futuro: «war is a great State builder…» (Jerry L. Mashaw).
«…Si può dire che gli eserciti siano la più vasta organizzazione sociale di massa. – scrive Cassese – Essi anticipano l’industria, la scuola, la burocrazia pubblica, i sindacati, i partiti. Negli eserciti e nell’organizzazione della guerra si riflette la cultura organizzativa diffusa di una società. E, all’inverso, gli Stati, attraverso gli eserciti, contribuiscono a formare la cultura organizzativa della società…».
È indubbiamente, quella che si viene formando, una cultura organizzativa caratterizzata da un forte imprinting autoritario (si pensi alla stessa diffusione su larga scala del taylorismo in questo periodo) e che viene osteggiata in tutti i modi sia sul piano politico sia su quello della spontaneità popolare. Dopo gli scontri di piazza fra interventisti e antibellicisti l’esperienza dei fanti di trincea matura in un posizionamento che la dice lunga: in fronte al nemico, alle spalle i carabinieri. Ad ogni buon conto gli avversari della guerra 1914-1918 sono considerati tout court, talvolta con qualche buona ragione, avversari dello Stato.
I movimenti contro la guerra, attivi con varie modalità in Italia nel periodo 1911-1917, traggono la loro linfa ideale dalle mobilitazioni popolari a sostegno dei disertori e contro l’istituzione militare, dalle campagne a favore dei soldati reclusi per disobbedienza. Quando – ad Amsterdam nel giugno 1904 – si tenne il congresso di fondazione dell’Associazione Internazionale Antimilitarista, in Italia ancora non esistevano gruppi attivi impegnati su quel fronte. Dall’incontro olandese, che vede la partecipazione di delegati provenienti da tutta Europa, scaturiscono decisioni importanti come l’abbandono della tattica tolstoiana della disobbedienza passiva a favore piuttosto di quella dell’azione diretta. Da allora una forte corrente antimilitarista si sviluppa in vasti settori del movimento operaio italiano, soprattutto tra gli anarchici, ma anche tra i socialisti e nei sindacati. L’antimilitarismo, particolarmente presente e attivo nel periodo giolittiano, in virtù dei suoi naturali connotati anti-autoritari, si collega in maniera indissolubile alla prassi anarchica. E quest’ultima componente è quella di gran lunga più numerosa, ad essa si affiancano in genere i sindacalisti rivoluzionari, la federazione giovanile socialista e, talvolta, quella repubblicana. Nutrito anche il gruppo delle donne come attiviste nella pubblicistica e nelle conferenze: Maria Rygier, Nella Giacomelli, Emma Pagliai, Zelmira Binazzi, Leda Rafanelli, Ersilia Mazzoni…
Sovversivismo e antimilitarismo si saldano e fanno convergere tutte le forze proletarie. Diserzione oppure «guadagnare l’esercito alla causa della rivoluzione»? Il dibattito sulle possibili strategie alternative è aperto e vivace. L’apice dell’attivismo si raggiunge negli anni che vanno dalla guerra in Libia alla conflagrazione mondiale. Nel 1911 Augusto Masetti, giovane soldato in procinto di partire per l’Africa, spara al suo colonnello al grido di «Viva l’anarchia, abbasso la guerra!». La campagna per la sua liberazione coinvolge l’opinione pubblica in tutta Italia. Così la questione del militarismo diventa oggetto di aspre contrapposizioni nella società e nello stesso movimento operaio. Ne sono testimoni, fra gli altri, giornali come «Rompete le file!», «Il Libertario», «L’Avvenire Anarchico», «La Pace», «L’Internazionale», «Guerra di Classe»… Il dibattito proseguirà dopo il fallimento del moto insurrezionale della Settimana rossa e anche oltre. Nel 1914 gli interventisti bellicisti si separano dall’Unione Sindacale Italiana mentre si acuiscono ulteriormente i contrasti interni al sindacalismo rivoluzionario.
Di forte impatto sarà allora la diffusione delle teorie di Gustave Hervé (1871-1944), autore del pamphlet di successo Leur Patrie, già preconizzatore dello sciopero militare in caso di mobilitazione bellica, ex-antimilitarista francese passato al nazionalismo e successivamente al fascismo. Le sue posizioni sono fortemente osteggiate in Italia dal socialista Ezio Bartalini, oltre che da Errico Malatesta e da Armando Borghi.
Le «perniciose idee del 1789», di cui anche gli anarchici e i socialisti sono in qualche modo figli, trovano così il loro redde rationem nell’incombente tempesta d’acciaio europea, nella inedita e sorprendente trasversalità “rivoluzionaria” che la promuove. Dall’insurrezione proletaria alla causa patriottica, dal socialismo internazionalista all’ideologizzazione del cameratismo di trincea: il passaggio è repentino e la violenza “motore della storia” rimane la cifra comune di continuità tra le due strategie; la guerra, non più moloch da abbattere ad ogni costo, diventa così la soluzione. La Nazione come nuovo orizzonte sta ormai soppiantando la Classe, risposta ideologica alla crisi del capitalismo nello spirito puro di Sorel. Teoria della violenza e sintesi con il sociale. Il furore patriottico dei nazionalisti converge così con le prospettive del sindacalismo interventista che individuano nell’evento stesso l’approntamento della macchina rivoluzionaria. Tutto questo mentre l’Europa dei popoli, inconsapevolmente, si avvia verso il proprio «suicidio».
Il ruolo dell’interventismo rivoluzionario, sebbene minoritario, è dirompente. A guerra iniziata lo stesso Manifesto dei Sedici, sottoscritto da importanti personalità dell’anarchismo internazionale, favorevole a schierarsi con l’Intesa per meglio combattere l’autoritarismo teutonico, suscita un grande disorientamento e molte polemiche; di certo non provoca spostamenti quantitativi di rilievo nelle posizioni del movimento anarchico nel suo complesso e la sua importanza è stata sopravalutata.
Tuttavia gli effetti della rottura nel campo libertario e dell’estrema sinistra saranno in parte superati nell’esperienza postbellica del primo antifascismo armato con gli Arditi del Popolo. In essa confluiscono infatti sia ex interventisti divenuti anti-mussoliniani, sia antimilitaristi che accettano di buon grado di essere militarmente inquadrati.

Giorgio Sacchetti

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